sabato 28 luglio 2007

I fantasmi di pietra

di Mauro Corona

“Percorro d’inverno con le mani in tasca le antiche vie di ciottoli, tra le case di sasso bianco rimaste in piedi dopo oltre quarant’anni di abbandono. Sulle altre, quelle ormai finite in terra, passo scavalcando macerie. Travi di larice rosso sangue ancora sani dopo quattrocento anni, squadrati a colpi d’ascia, occhieggiano semisepolti dalle pietre scalpellate provenienti dal monte Borgà. Su tutto trionfano l’ortica secca e sambuchi scheletriti. La foresta torna a riprendersi il territorio, ricresce là, dove l’uomo l’aveva estirpata per fare case e orti. Anche d’inverno le ortiche resistono, pungono. Selve di steli disseccati emergono dai sassi. Rigidi, sottili, cattivi, non cedono nemmeno al vento, vivono tra i fantasmi di pietra, tengono compagnia alle case abbandonate. C’è ancora qualche vecchio, pochi, rari come i cuculi a marzo. Hanno sguardi malinconici, la tristezza trapela, non c’è verso di scacciarla, chiudono occhi acquosi che non sorridono più. E’ strano, ho l’impressione di sentire ancora voci di bambini. Girano tra le case abbandonate, attorno alle macerie di quelle crollate, sul sagrato della chiesa, che resiste nonostante sia stata spogliata di tutto. Emana quell’aria di mistero, di santità, di presenza divina che hanno le vecchie chiese e che nessun tempo o mano umana riusciranno a soffocare. Che ne sarà in futuro del vecchio paese? La desolazione circola tra le case, salta dentro finestre vuote, perlustra i sottoscala, percorre cortili, s’arrampica sui meli, spia, accarezza. Si leva il vento dell’inverno. Come un tempo. Qualche porta sbatte. Molte case non ci sono più, ma il vento è sempre lo stesso. La pietra messa a pavimento resiste al passare degli anni, quelle dei muri poste una sull’altra se non sono accudite, amate, riscaldate, cadono. “Un peso deve cadere altrimenti non è un peso” scrisse Carlo Michelstaedter prima di spararsi. Era la sera del 17 ottobre 1910. Gli erano cadute addosso le pietre della vita. Senza amore non si resiste al vagito del tempo, che è sempre giovane, sempre passato. Non si regge al suo sbadiglio contagioso che ci porta il grande sonno. Il mio caro, vecchio paese si lascia morire per mancanza d’affetto, si sta suicidando per abbandono. Partire per un viaggio in pieno inverno a mani in tasca non è facile. Eppure è un viaggio di nemmeno un chilometro.”
da “I fantasmi di pietra”, di Mauro Corona, Mondadori editore

9 ottobre 1963, ore 22:39. Duecentosettanta milioni di metri cubi di rocce e terra si staccano dal fianco del monte Toc e precipitano nel lago artificiale del Vajont. Le due ondate provocate dalla frana uccidono più di duemila persone a Longarone e nei paesi limitrofi, e piantano un colpo di mannaia nel futuro dei superstiti.
Mauro Corona aveva tredici anni a quel tempo, e l’onda risparmiò per pochi metri il suo paese, Erto, ma non le sue frazioni più basse. Quel giorno, quell’evento si staglia con la sua terribile ingombrante presenza sullo sfondo del suo ultimo commovente libro.
Un viaggio, un pellegrinaggio lungo le desolate vie del paese vecchio ed abbandonato, lungo quattro vie, e quattro stagioni. Ed il racconto di ciò che era, da sempre, e non tornerà: personaggi, sbronze, racconti, leggende, odori, animali, colori, sapori, antiche conoscenze e abilità perdute, che lungo i ciottoli silenziosi senza più vita tornano per un breve momento ad affacciarsi al mondo attraverso la dolcissima malinconia del ricordo.

Come sempre, quando finisco un libro di Mauro, un groppo mi morde la gola. Sarà che sono troppo sensibile io, o forse sarà la capacità rara che possiede lui di toccare qualche corda profonda dentro l’anima, e di farti vivere ogni sensazione ed emozione della sua esperienza, sarà la sua schietta e burbera sincerità, verso gli altri e soprattutto se stesso, a rendere i suoi racconti così speciali, almeno per me… penso che sia proprio così, e chi avrà voglia di leggere un suo libro, penso proprio che si troverà d’accordo con me.

martedì 17 luglio 2007

inizio a scrivere in questo blog postando qualcosa del passato...
che ha lasciato un bellissimo ricordo nella mia memoria...
l'estate scorsa con dei cari amici abbiamo passato qualche giorno "persi" sulle orobie...
posterei tutte le foto... il diario di viaggio... il video...
invece posto solo una foto... ed una bellissima poesia...


"Grazie Montagna...
per avermi dato lezioni di vita,
perchè faticando ho imparato a godermi il riposo,
perchè sudando ho imparato
ad apprezzare un sorso d'acqua fresca.
perchè stanco mi sono fermato
ed ho potuto ammirare le meraviglie di un fiore,
la libertà di un volo di uccelli,
respirare il profumo della semplicità.
Perchè solo immerso nel tuo silenzio
mi sono visto allo specchio e spaventato,
ho ammesso il mio bisogno di verità e amore.
Perchè soffrendo ho assaporato la gioia della vetta,
perchè percependo che le cose vere,
quelle che portano alla felicità,
si ottengono solo con la fatica.
E chi non sa soffrire, mai potrà capire..."

Battistino Bonali

domenica 15 luglio 2007

Relax al Bertacchi (…ma non per tutti)

Domenica 8 luglio 2007

PREMESSA: in corsivo sono riportati i pensieri dei protagonisti. Ogni riferimento a persone, cose, idee e/o situazioni reali è puramente casuale (o casualmente voluto, chissà…).
Questo racconto va letto senza prenderlo troppo sul serio…

SCENA 1. Madesimo, frazione Macolini. Esterno giorno.
Domenica mattina, verso le 10. L’auto viene chiusa; due ragazzi in pantaloni
corti e con lo zaino sulle spalle guardano davanti a sé. Un ruscello corre loro incontro, il sentiero segue a ritroso il suo corso lungo il fondovalle in falsopiano, a destra come a sinistra pendii abbastanza ripidi chiudono l’orizzonte, mentre dritto, in lontananza, un roccioso monte incombe sulla valle. Alcune vacche pascolano tutt’intorno.
BRÜNIG: Allora, pronti per un bel giretto in tutta tranquillità?
ROBY: Certo, basta che sia davvero in tranquillità!
Due ore e mezza che ti dico che sono fuori allenamento, se mi tiri troppo il collo ti prendo le bacchette e te le uso contro natura, occhio!!!
B: Va’ che bello, laggiù, il Pizzo Spadolazzo, non sarebbe male farci un giretto, neh?
Ci devo andare, orco giuda se ci devo andare…
R: Seehh, magari un’altra volta…
Cominciamo bene, manco siamo partiti e già questo si fa idee strane… chi cacchio si crede d’essere, Messner? Che poi, che nome idiota è “Spadolazzo”?!? e meglio non fare la rima…


Una decina di minuti più tardi, lungo il sentiero, un bivio. A sinistra la strada prosegue dolcemente, il rifugio è indicato a un’ora e quaranta minuti. A destra la traccia sale a tornanti per il ripido fianco della montagna lungo il quale un paio di torrenti formano delle belle cascatelle, il rifugio è dato a un’ora e venti.

B: Allora, che facciamo?
E’ giusto che decida lui, io prenderei il sentiero ripido, ma non vorrei ammazzarlo, che poi magari mi prende le bacchette e le usa contro natura… non sarebbe mica tanto bello…
R: Ma sì, dai, prendiamo il sentiero corto, non penso di essere messo così male.
In realtà penso di essere messo pure peggio, ma la figura del cittadino bolso col cavolo che la faccio!
B: Ok, vuoi far tu il passo?
La macchina è la sua, meglio essere gentili…
R: No, no, vai pure, casomai se mi stacco ti raggiungo poi.
Sempre che passi un elicottero…
B: Guarda quel cartello, indica il Pizzo d’Emet a 4 ore e mezza. Andiamo?
Come mi diverto a fare il bastardo dentro… ;-)
R: Manco morto!
Adesso le bacchette le uso, giuro che le uso! Che poi voglio vedere se fa ancora il bastardo dentro!

Passano circa quaranta minuti. Il ripido è ormai alle spalle. Al di là di qualche pausa strategica (usata dall’uno per scattare foto e dall’altro per cercare da qualche parte un po’ di fiato) si è tenuto un buon passo. Il rifugio ancora non si vede, ma ormai manca davvero poco, c’è solo un ultimo dosso da rimontare. Un ponticello d’assi aiuta a guadare il torrente. Mentre scattano alcune foto, i ragazzi sono raggiunti da un escursionista con cane al seguito. Il cane entra in una pozza d’acqua fresca e resta in ammollo sotto gli occhi di Roby.
B: Dai, scattagli una foto!
R: A cosa?
B: Come a cosa? Al cane, lì in acqua!!! Ma non lo vedi?!?
O signùr, altro che fuori allenamento, questo qui è proprio cotto… Beh, vorrà dire che non avrà neanche la forza di usare le bacchette contro natura, meglio così, va là…



SCENA 2. Rifugio Bertacchi. Interno giorno.
Piccola sala da pranzo del rifugio, una panca corre lungo la parete, una piccola stufa riscalda l’ambiente. Alla parete una cartina della zona, mentre appesa alla porta della cucina una fila di multicolori bandierine di preghiera tibetane dà un’impronta suggestiva all’ambiente.
Davanti a due tazzine da caffè vuote, bisogna vedere cosa fare nel pomeriggio.
R: Pizzoccheri e spezzatino con taragna, mi sa che ho esagerato col mangiare…
Ci vorrebbe proprio una bella pennica, magari in riva al lago qua sotto…
B: Già pure io…
Ci vorrebbe proprio una bella camminata digestiva, magari al Pass da Niemet, al confine con la Sguizzera, son giusto 150 metri di dislivello… Ma sì, gliela butto lì…
Ti va una passeggiata di una mezz’oretta al Passo qui vicino, così, tanto per buttar giù il pranzo?
R: E sia…
ma porc… ma perché deve sempre camminare?!? Ma c’era qui ‘sto bel laghetto, ci si poteva svaccare alla grande… e invece no, lui deve sempre camminare… la prossima volta vado all’Idroscalo…


SCENA 3. Pass da Niemet, mt. 2294. Esterno giorno con nuvole che s’addensano minacciosamente.
Alcuni massi allineati ed alcuni cippi lungo la cresta segnano il confine italo-svizzero. Il panorama, se non fosse per le nuvole che lo tagliano a metà, sarebbe grandioso, con il fianco del poderoso Pizzo d’Emet da una parte e la mole dello Spadolazzo dall’altra, ed in lontananza i 3000 ghiacciati della Val Chiavenna, il Ferrè, il Tambò, e i monti svizzeri dei Grigioni. Il vento abbassa decisamente la temperatura, e dopo un rapido giro di foto i due camminatori s’accingono a tornare indietro.
B: Visto che non ci abbiamo messo così tanto? Come vanno le gambe?
Se mi dice che è stanco dopo una passeggiata in relax come questa, non rispondo più delle mie azioni… e davvero lo mando sull’Emet… ma come dico io! D’altronde, sono o non sono bastardo dentro?
R: Beh, in effetti pensavo di esser messo peggio.
In effetti un accidente! Le gambe due tronchi, la milza non pervenuta, il fiato poco più di un rantolo… certo, se ero a letto con quaranta di febbre ero messo peggio! E che non gli venga voglia di andarsene ancora in giro, se no mando affan… lui, il rifugio, lo Spadolazzo che rompe il …, il Passo, il confine con Heidi e tutta la Svizzera e me ne torno a casa da solo! Ecchecc..!!!


SCENA 4. EPILOGO. Madesimo, frazione Macolini. Esterno giorno con leggera pioggerellina.
Due ragazzi in pantaloni corti sono seduti in auto, gli zaini chiusi nel baule. La giornata è ormai alle spalle, resta solo il viaggio di ritorno, che si protrarrà per "sole" quattro tragicomiche ore...
B: Beh, dai, alla fine è andata meglio del previsto, e la pioggia ci ha pure lasciati quasi in pace…
orca, sembrava dovesse venire giù chissà che finimondo, ed invece ha fatto solo due gocce… va beh, nulla di male: in fondo, se vai per sentieri, devi pure accettare il rischio di una doccia ogni tanto… a l’è ‘l sòo bèll... e poi, almeno così si arriverà a casa un po' prima...
R: …Eh già...
seehh, ci mancava pure il diluvio! Che poi ero senza bacchette, e dovevo scendere sul ripido, e con le rocce bagnate… non voglio nemmeno pensarci, ai voli che avrei potuto fare… ma la prossima volta mi presento allenato e pure con le bacchette, e allora ti faccio vedere io! ;-)

venerdì 13 luglio 2007

Ritorno in Alta Val Brembana

Domenica 8 luglio 2007

Tornare il sabato sera a mezzanotte da Milano con una (una…?) sana birretta e stuzzichini leggeri in corpo, è condizione ideale per affrontare una camminata di più di otto ore in montagna… Soprattutto quando la sveglia è puntata alle 5!
A parte questo, una giornata magnifica saluta me e Daniele a Carona (alta Val Brembana) alle ore 6.30 di domenica 8 luglio: l’aria frescolina ed il canto degli uccelli fanno presto dimenticare le poche ore di sonno. Il nostro programma è abbastanza ambizioso (3 cime in giornata, la più alta sopra i 2.700, partendo da quota 1.100 mt), ma la voglia di montagna da saziare è davvero tanta!
Alle ore 8 abbiamo già raggiunto il rif. F.lli Longo (2.026 mt) non ancora illuminato dal sole che resta nascosto oltre il Passo della Selletta; preferiamo però salire sino alla diga del Lago Diavolo, poco più sopra, per effettuare la prima sosta: solo un sorso di bevanda isotonica ed un pezzo di cioccolato, e subito ripartiamo per il Passo Cigola (2.486 mt).
Gli ultimi metri di salita sono scanditi dal lamento di alcuni giovani stambecchi, che però non riusciamo ad avvistare sulle rocce delle creste soprastanti.
Dalla sella, la vista è di quelle da cartolina: sotto di noi la Val d’Ambria che declina verso la Valtellina e sullo sfondo i massicci del Disgrazia e del gruppo del Bernina.
Il tempo tiene, tanto che voci di alcuni escursionisti che ci giungono dal vicino fianco del Pizzo Cigola ci spingono a pensare ad un’ulteriore vetta… Ma prima raggiungiamo quella più alta, l’Aga (2.720 mt), che ci accoglie, assieme ad una bella famigliola di stambecchi, poco dopo le 9.30.
L’emozione che offre questa cima (che raggiungo per la 6 volta!) è sempre tanta, soprattutto perché lì, a poca distanza, c’è lui, il mitico Diavolo di Tenda, la vetta più alta della Val Brembana con i suoi 2.916 mt. e la sua inconfondibile forma piramidale, copiata a regola d’arte dal fratello minore Diavolino (2.810 mt), sotto cui ben in vista c'è il Passo di Valsecca, crocevia tra rif. Calvi e Brunone, ed alla sua destra lo svettante Pizzo Poris. Lo sguardo va subito un po' più oltre a scorgere il "trittico" dei tremila orobici, dallo Scais al Redorta, mentre il Coca è nascosto poco dietro. Tutto fantastico, anche uno stambecco adulto che si mette in posa, stagliandosi sullo sfondo del Lago Diavolo, a picco sotto la cima: foto eccezionale!
Non restiamo molto in vetta, anche perché alcune nuvole dense si ammassano a sud oltre la conca del rif. Calvi, a ridosso del Passo Portula; decidiamo perciò, dopo un panino trangugiato alla svelta, di proseguire. Ritorniamo sui nostri passi fino alla diga del Lago Diavolo (abbiamo intanto scartato l’ipotesi di salire anche al pizzo Cigola, mai tentato e ci sembra pure un po’ ostico), dalla quale però ci allontaniamo in direzione nord-ovest per raggiungere il Passo di Venina. La salita richiede ancora un po’ di sforzo (300 mt di dislivello), ma la pendenza ed il terreno sono dolci (bel “pratone” esposto al sole: NDR: Bru, ti ricorda niente il termine pratone??? ;o) e siamo confortati dal fatto che le nuvole rimangono lontane (il mio bel nasone assomiglia così sempre più a quello della renna di babbo Natale, tanto è arrossato!).
Raggiunto il valico verso mezzogiorno, riecco la vista sul Bernina, e sotto di noi l’imponente diga del Lago di Val Venina. Adesso siamo un po’ stanchi, ma la vetta dei Monti Masoni (2.668 mt) è poco distante, e decidiamo di raggiungerla con una facile camminata in cresta prima di azzannare un altro panino.
Stranamente, la cima dei Masoni (montagna poco nota e forse non d'attrazione per ‘il grande pubblico’) è affollata, ed è qui che si “materializza” l’incontro con il “personaggio della domenica”!
Intento a decantare le proprie imprese alpinistiche (magari sono vere, non voglio denigrare) ad una setta di malcapitati adepti, un uomo sulla quarantina che scopriamo provenire dalla media Val Seriana. Quello che mi fa usare un tono sarcastico, è il suo tono… quell’attimino da spaccone da festa di paese (soprattutto quando se ne esce con strafalcioni sulla disavventura di un poveretto che solo una settimana prima è morto sul Diavolo di Tenda…): passi, se non che il mio socio Daniele, ammirato dal personaggio, non decida di abortire il panino per ritirarsi alla svelta nella sottostante Val Sambuzza!
E’ proprio in questo istante che arriva il mio lampo di genio: domandare al nostro amico la via migliore per la discesa (dico io: se è un alpinista, questo pezzo l’avrà pur fatto!).
Da vecchi soci, il personaggio, poggiandomi una mano sulla spalla, mi dice che per concatenare la vetta del Pizzo Zerna (che era la nostra terza vetta programmata per la giornata), bisogna affrontare alcuni tratti alpinistici di probabile 2° grado (guardando sotto di noi, penso che non sia poi del tutto avventata tale tesi), cosa che lui ha già fatto in passato attrezzando alcuni passaggi con fettucce (???) e corde quadruple (???)… Altrimenti si può optare per una discesa “ad occhi chiusi” (così l’ha definita lui, ovviamente in un colorito dialetto bergamasco) per una canale diretto sulla Val Sambuzza… "VA BENE! "esclama sogghignando, dietro di me, Daniele, e lasciamo così a malincuore l’allegra brigata in vetta.
Dopo pochi metri sulla linea dello spartiacque, vediamo il famoso canalino: Daniele è restio alla discesa abbastanza verticale, ma io sono il solito matto (lui mi chiama simpaticamente, in montagna, “l’uomo alternativa”, per la facilità con cui mi invento nuove vie!): senza nemmeno pensarci mi butto sul ghiaione, e con stile da vero Alberto Tomba mi abbasso in pochi istanti di un centinaio di metri di dislivello. Non siamo nuovi a queste trovate, anzi, sono l’aspetto divertente delle nostre uscite! Anche perché, appena superato un primo tratto più difficile tra roccia viva e sfasciumi, ecco un lembo di neve dove scatenare un po’ di pazzia! Raggiungiamo così in pochi minuti i pascoli sottostanti e i bei laghetti naturali a metà della valle (guadando pure qualche fiume e palude, facendo inoltre l’incontro gradito e piuttosto ravvicinato con un camoscio!), dove finalmente estraiamo dallo zaino e consumiamo il meritato pranzo.
Sono le 13.20: abbiamo camminato per più di 6 ore e mezza, con solo 20 minuti totali di soste! Dopo pranzo, ancora una buona ora di discesa nell’incantevole Val Sambuzza, tra il verde dei larici e sullo sfondo la caratteristica sagoma del Pizzo del Becco, ed eccoci alla macchina… senza nessuno uso di corde quadruple!!! Davvero una bella “scorpacciata” di montagna dopo un periodo di astinenza!

mercoledì 11 luglio 2007

A zonzo per l'Alta Valsesia

Giovedì 5 luglio 2007
Giovedì mattina. E’ il mio turno di riposo infrasettimanale, al GS ci vadano pure gli altri.
Da un po’ di tempo avevo intenzione di fare un giro per monti da solo, così, tanto per vedere l’effetto che fa.
E per l’occasione decido di andare a trovare il Monte Rosa o, meglio, la sua parete sud, affacciata sull’alta Valsesia. Per il giro di oggi avevo in mente una serie di destinazioni diverse ma non una meta precisa. Avevo deciso di stabilire la meta una volta arrivato ad Alagna. E così ho fatto.
Siccome non è prestissimo, lascio perdere il vallone d’Olen, e mi dirigo verso le ultime frazioni di Alagna, dove partono i sentieri per il Colle del Turlo ed il rifugio Barba Ferrero. Incamminandomi lungo la strada asfaltata che costeggia la miniera, penso che non mi spiacerebbe arrivare fino al Colle, ma so che è parecchio lunga, ed inoltre, verso il Rosa, il tempo non è dei migliori. Intanto, finito grazie a Dio l’asfalto, un bel sentiero risale ripidamente il fianco della montagna di fronte alla suggestiva cascata dell’Acqua Bianca e mi porta in breve all’Alpe Pile, un bel pianoro con vista sui ghiacciai del Rosa (che finalmente s’intravedono, anche se fra una nuvola e l’altra), dove si trova il rifugio Pastore. Piccola sosta, e si riparte lungo il sentiero diretto al Colle.
Sono in perfetta solitudine in mezzo ad un bel bosco di larici ed abeti rossi, e mi sento da dio. Il sentiero sale dolcemente, la luce del sole che salta fuori dalle nuvole crea giochi di chiaroscuro con le cime degli alberi ed arriva obliqua al soffice strato erboso che ricopre il terreno ai miei piedi. Potrei fermarmi qui, sedermi con la schiena appoggiata ad un tronco qualsiasi e restarmene lì in pace col mondo per chissà quanto, e la tentazione per un momento mi fa indugiare… ma ho anche voglia di fare un po’ di sana fatica, e continuo ad andare. Giunto al bivio per il Barba Ferrero, mi rendo conto che è davvero tardi (è quasi mezzogiorno!), e cambio destinazione, prendendo per il rifugio. Ora il sentiero si fa un po’ più “sporco”, e prosegue a lungo in falsopiano, tagliando a mezza costa la montagna fino ad uscire dal bosco. Ora, in mezzo ai rododendri, la testata della valle fa bella mostra di sé, con la parete del Rosa e i suoi ghiacciai a chiuderla, ed il neonato Sesia che fa sentire la sua voce laggiù in fondo. Il cammino procede tranquillo, con alcuni tratti un po’ più ripidi, il tempo per fortuna tiene, e l’aria si rinfresca per via del vento che ora si è alzato. E finalmente, in lontananza davanti a me, il rifugio di pietra grigia si lascia intravedere, fra il verde dei prati ed il grigio delle rocce con cui si confonde. Ma ci vuole ancora un po’, e manca da affrontare la parte più divertente.
Infatti, la traccia punta decisa verso alcune rocce che fanno da sponda ad un paio di torrentelli che belli decisi vanno a tuffarsi nel Sesia. Il guado non è difficile né pericoloso, e poco oltre passo in un punto un poco esposto, dove una corda fissa è messa lì più per avvertimento che altro.
Ormai è fatta, il rifugio è a pochi metri, in mezzo c’è solo l’ultimo torrente, ma non posso attraversarlo qui, perché se scivolassi rischierei di essere trovato nel Po… allora mi tocca risalire il pendio fino ad un ponticello di legno, per poi ridiscendere dall’altra parte fino all’Alpe Vigne, che è la mia meta.
Il rifugio è chiuso, ma trovo tre simpatici signori di Biella che mi offrono un bicchiere di rosso, e ci si mette a chiacchierare. Si stupiscono nel vedermi in giro per monti, da solo, di giovedì… pensano che tutti i ragazzi della mia età abbiano altri interessi che non i monti e la natura. Col più loquace dei tre si parla di avventure passate (le sue) e sogni di avventure future (le mie…), mentre lo sguardo si riempie della bellezza di un panorama che si può respirare. E ti fa sentire piccolo così, di fronte alla sua maestosità.
Fortuna vuole che durante la sosta le nuvole si diradino, e i ghiacciai e le rocce del Rosa si mostrino finalmente in modo nitido, bianco e nero contro il blu del cielo. Piramide Vincent, Punta Parrot, soprattutto Punta Gnifetti, con un quadratino nero proprio in cima… Capanna Regina Margherita. Che sogno.
Sono le tre quando, purtroppo, mi tocca rimettermi in marcia sulla via del ritorno, che in un paio d’orette mi riporterà alla macchina. Un saluto ai tre signori e sono di nuovo in cammino, lungo il sentiero più breve, che scende ripido per un bel tratto, fino a raggiungere il Sesia per poi costeggiarlo fin quasi all’Alpe Pile, dove mi fermo un attimo e mi giro per rivolgere un ultimo sguardo alla magnifica parete di roccia e ghiaccio.
In giornate come questa è lieve la fatica del camminare…

domenica 8 luglio 2007

Significato dell'escursionismo

Non voglio aggiungere molte parole (se non sottolineare le frasi più significative) a questo bellissimo articolo, nel quale mi son ritrovato e che mi ha permesso di vedere espresso in parole molto di quello che provo quando evado in un’altra dimensione, quella della montagna… riporto perciò quasi in integrale questo bello scritto (grazie al CAI e a tutti gli amanti, professionisti e meno, della montagna!)
Significato dell’escursionismo
(da “LA RIVISTA” - Bimestrale del Club Alpino Italiano – Gennaio/Febbraio 2005)

Da qualche tempo, giustamente, si conferisce particolare attenzione ed importanza all’escursionismo. Attività che prima era stata forse un po’ trascurata. A torto. Ma questo ora non deve indurre a pretendere per essa un livello superiore ai suoi limiti. Né si potrebbe compiere più grande errore che contrapporla all’alpinismo. Perché proprio in questo l’escursionismo trova non solo la sua collocazione logica, ma specialmente - quello che conta di più - la reale essenza che gli conferisce validità etica. […]
Possiamo innanzi tutto osservare che esistono due generi di escursionismo. Il primo prescinde totalmente dalla meta finale. Che può quindi essere rappresentata anche da un laghetto, un corso d’acqua, una forcella, un rifugio. E da altri elementi naturali o artificiali. Può consistere anche in una traversata, possibilmente in quota. Il secondo escursionismo invece quello che si pone per fine irrinunciabile il raggiungimento di una vetta. Ed in ciò appunto collima con l’alpinismo, tanto da integrarsi in esso.
Ma prima di dedicarci a questo secondo genere, certo il più essenziale, vediamo di esaminare più a fondo il primo e a rilevarne le peculiarità essenziali che lo distinguono. L’escursionismo che non ha per meta la cima, presenta in genere aspetti che rientrano poi naturalmente anche nell’ altro. Queste particolarità comuni culminano nell’assoluta mancanza dell’elemento sportivo — almeno secondo il significato che diamo oggi al termine —. Perché nella scalata, di cui anche la competizione risulta componente, c’è chi ha cercato — e purtroppo chi tuttora cerca — di parlare di sport “tout court”. Inoltre l’escursionismo non è certo prassi effettuata a scopo di lucro e manca pure — almeno in senso lato — dell’elemento ambizione e ricerca di gloriola, che pure troviamo nei fattori inerenti all’alpinismo in misura certo molto ridotta, perché i grandissimi scalatori godono di una fama indubbiamente minore di quella d’un calciatore di serie C. Ma questa assenza di agonismo e di ambizione contribuisce invece ad innalzare l’escursionismo ad un livello etico superiore, tale da farne un’attività pura, al di sopra delle esigenze di benessere e guadagno, tipiche dell’odierna forma di vita. Cosa dunque può spingere l’uomo a praticare questa inconsueta attività? Innanzi tutto motivi ideali, anche se perlopiù inconfessati come tali. E lo sviluppo stesso di questa nostra civiltà, sempre più invadente ed oppressiva, che ha dato luogo, per contrasto, a movimenti artistici e filosofici tendenti ad evocare la liberazione da un ambiente dedito soltanto alla materia, rivalutando il fattore troppo spesso rinnegato, ma non per questo meno effettivo di questo mondo: la natura. E il ritorno alla natura costituisce l’essenza caratteristica di movimenti quali il romanticismo, dal “bon sauvage” di Rousseau al ritorno al cosmo genuino dei monti di Buchner. Questo bisogno, sentito non solo spiritualmente, ma anche fisicamente, trova la sua realizzazione nell’anteporre il camminare al mezzo meccanico, il creato genuino alle costruzioni artefatte, la solitudine alla folla. Consiste dunque nel privilegiare l’evasione dalla quotidianità, dall’automatismo robotiano degli slogan propagandistici. Evasione non solo mentale ma effettiva, in cui viene coinvolta la totalità dell’essere umano nell’attuazione di una prassi voluta, e liberamente scelta, in opposizione alle dosi sempre più massicce dell’oppio televisivo, o all’amalgama esaltato che fa corona ai cosiddetti spettacoli sportivi. Questo l’aspetto etico. Ma cosa lo sostiene, lo rende attraente, lo impone? Proprio il ritorno effettivo al mondo naturale, nel quale l’uomo è stato creato. Per cui la gita, l’escursione equivale appunto ad un ritorno all’ambiente consono alla stessa costituzione dell’uomo. E gli permette di affermare la sua esistenza più elevata: la spiritualità. Questa azione in montagna, proprio perché — lo ripeto ancora — pure fisica, gli regalerà una sensazione accentuata di benessere fisico e morale. Fisico per l’ambiente puro, l’atmosfera non inquinata, lo sforzo prolungato, ma non violento. Morale per il fatto stesso, come già detto, di compiere azione fine a se stessa, estranea ad ogni ricerca di fruizione utilitaristica.
Quanto detto di positivo — e di effettivo — per il primo tipo di escursionismo, è pure conglobato integralmente nel secondo. Che inoltre si distingue per il fine dichiarato e irrinunciabile della vetta. Meta così importante ed essenziale da coronare tutti i fattori idealistici di questa prassi. In questo senso la ricerca della vetta rappresenta una conclusione insieme logica ed ideale: “Ponte Alato” sospeso tra superficie e cielo, che simbolicamente i grandi saggi dei miti avevano attinto nella loro questua meditativa di elevazione, Ora, nel clima odierno di appiattimento, facile la critica, persino la derisione; come attribuire una volontà di altezza metafisica al comune gitante per cui la cima rappresenta il termine dello sforzo e della fatica, da festeggiare tutt’al più con qualche sorso di bevanda portata appresso nella borraccia? Al massimo gli possiamo concedere il piacere visuale di un bel panorama e la soddisfazione di uno scopo progettato e portato a buon fine. Ma già così esprimiamo elementi, chiari segni di una diversa dimensione toccata e conglobata dall’alpinista o dall’escursionista, che arriva così all’acme del suo atto: quello che comunemente viene definito “sentimento della vetta.” Questo infatti va ben oltre la semplice soddisfazione di una prassi portata a termine o della vista di un panorama suggestivo. Si tratta infatti di un’emozione ben più forte, più profonda, difficilmente definibile o spiegabile, che inoltre, cito ancora una volta Dante — “intender non la può chi non la prova.”- Tanto intensa e pregnante da parere assurda, se giudicata col parametro della normalità pianificata. Che invece, proprio per questa illogicità apparente, permette all’uomo di toccare un’altra grandezza, già virtuale, ma oggi latente in lui. Che spiega pure le forme più belle ed elevate del nostro pensiero. L’arte. La fede. Validità del simbolo. Cosa altro significa nella religione — per esempio — il segno della croce? Virtualità del simbolo. Come spieghi l’intuizione dell’infinito? L’esistenza di miliardi di stelle, se non ammettendo appunto una dimensione che va oltre i limiti ristretti del ragionamento? E come puoi accostarti a quella che rappresenta la logica espressione di queste realtà superiori, cioè la natura? Cosa ti indicano i monti, le guglie, con il loro slancio verticale, se non la questua di elevazione che malgrado tutto specifica l’essere umano, e mai potrà essere soppressa dagli idoli del lucro, guadagno, egoismo? Questo quindi il significato primo e più profondo dell’ escursionismo. Ricerca della vetta. Che dobbiamo avere il coraggio di affermare — coraggio perché oggi è diventato questo l’affermazione dello spirito di fronte al materialismo utilitaristico. O meglio, questo il significato primo dell’alpinismo. Perché in questa ottica l’escursionismo collima con l’alpinismo. Il valore primo dell’escursionismo, in senso etico, sta dunque nella ricerca della vetta, per cui idealmente diventa alpinismo. Da questo si distingue più di tutto per motivi tecnici. Ma questi, per quanto importantissimi, non alterano il concetto generale. Semmai rappresentano una discriminazione simile, anche se più essenziale, a quella che distingue la scalata libera da quella artificiale. […]

Spiro Dalla Porta – Xydias (CAAI – GISM)

mercoledì 4 luglio 2007

Il mio battesimo del ghiaccio

Traversata del Ghiacciaio del Monte Bianco: 30/06 - 01/07/2007

Vi confesserò: l'idea di andare per ghiacciai non mi aveva mai, finora, clamorosamente entusiasmato. A farmi cambiare idea è stata l'occasione di questa traversata, al cospetto del gigante d'Europa e dei suoi "fratelli", che il buon Fabrizio di Zainoinspalla mi ha consigliato come perfetta per principianti. La prospettiva era troppo bella per essere ignorata, ed eccomi quindi partire da Milano ed arrivare puntuale all’appuntamento a Courmayeur con le guide, Filippo e Giovanni. E subito dopo le presentazioni inizia la parte interessante: da neofita totale dei ghiacciai, faccio conoscenza con ramponi, imbrago e piccozza.
Esaurite le operazioni preliminari, prendiamo i tre tronconi di funivia che ci portano ai 3375 mt. Del Rifugio Torino. Per ora non sento ancora il salto d’altitudine, già non indifferente. Ci sarà tempo…
Usciamo dalla funivia, e siamo già in mezzo alla neve. Già le foto si sprecano (alla fine ne avrò scattate una settantina, e rispetto ad altri saranno poche!), ma Giovanni e Filippo ci richiamano all’ordine per formare le cordate e partire sotto un sole splendido.
Dopo pochi minuti, ci portiamo in cima al Col Flambeau, da cui si domina la Vallée Blanche. Sopra di noi corre la funivia che arriva fino a Chamonix, passando per il famoso “pilone sospeso”. Intorno a noi… Uno spettacolo pazzesco. Giovanni si prende tutto il doveroso tempo necessario per illustrarci le cime che ci dominano, a cominciare dal massiccio composto, nell’ordine, da cima del Bianco, Mont Maudit, il Grand e il Petit Capucin e il Mont Blanc du Tacul. Ancora poco visibile è il Tour Ronde, ma per ora PROBABILMENTE possiamo accontentarci (probabilmente, eh?).
Iniziamo la discesa verso il fondo della Vallée Blanche, da cui poi dovremo risalire per arrivare al Refuge des Cosmiques, e inizia la lunga sequenza di incontri che faremo lungo tutta la strada. Uno in particolare mi resta impresso: un signore francese si rivolge a Giovanni (a capo della mia cordata), e gli chiede: “Traversate verso l’Aguille du Midi?” “Sì.” “Ah, oui… C’est magique!”.
Continuando la discesa, intravediamo nuove cime (ma quante sono?): Les Drus, L’Aguille Verte, Les Droites, e una delle cime più famose del massiccio, il mitico Dente Del Gigante; ma soprattutto, in lontananza, scorgiamo l’Aguille Du Midi e, di fianco, decisamente più in alto rispetto a noi, un puntolino blu: il rifugio! Ci vorrà ancora tempo prima di arrivarci, e una discreta salita. A proposito di salita: arrivati sul fondo della valle, e quindi al punto più basso della traversata, prima di iniziare l’ascesa al rifugio ad un mio compagno di cordata dotato di altimetro viene giustamente l’idea di controllare l’altitudine: siamo a 3101 metri. Calcolando che il rifugio è a 3618 metri, fa un dislivello massimo di 517, tutti davanti a noi.
Proseguendo, costeggiamo alla nostra sinistra un pendio dove la neve è particolarmente smossa. È fin troppo evidente che siamo di fronte ad un seracco fresco, che dev’essersi staccato dal monte davvero da poco, scendendo lungo tutto il pendio fino a valle.
Non abbiamo finito di contemplare lo spettacolo, che sentiamo intorno dei rombi impressionanti. I più lesti tra noi afferrano la situazione al volo: “Da qualche parte sta staccando!”. Ed infatti, non ci mettiamo molto a scorgere in lontananza, decisamente più in alto lungo il pendio del massiccio, lo spettacolo impressionante dei seracchi e delle nuvole di neve “in tempo reale”.
Poco dopo si smette di parlare: è iniziata la salita vera, e il fiato lo si risparmia per arrivare in cima. Ora l’attenzione è rivolta alle distanze in cordata, ed alla necessità di non perdere il passo per non costringere il proprio compagno a tirarci. Adesso l’altitudine comincia a farsi sentire, e saranno necessarie un paio di soste strategiche prima arrivare al rifugio nel pomeriggio.
Il rifugio “Des Cosmiques” recentemente rifatto, è davvero bello e confortevole, e dispone di una terrazza da cui si può dominare tutta la vallata che scende fino a Chamonix.
Mente aspettiamo la cena (con discreta impazienza: la fame è tanta!), Giovanni e Filippo ci spiegano che domani mattina saremo probabilmente gli ultimi a lasciare il rifugio, e di gran lunga: qui, infatti, la colazione viene servita in ben quattro turni, tra l’una e sette del mattino, per dare il tempo al grosso degli occupanti di uscire prestissimo ed affrontare le 7-8 ore di salita verso la cima del Mont Blanc du Tacul. E ci avvisano di non stupirci quindi se, nella notte, sentiremo il macello di quelli che scendono dalle camerate per andare in sala da pranzo.
Dopo cena la palpebra cala presto: tra le 21:30 e le 22:00 siamo tutti a letto. Per me non è una notte facile: completamente nuovo come sono a simili quote, mi sveglio spesso in preda al mal di testa, che mi accompagna anche a colazione. Sono circa le 7:00, e dalle finestre del rifugio vediamo molti alpinisti scendere dal Tacul con largo anticipo rispetto al previsto. I primissimi arrivano mentre stiamo ancora facendo colazione. Ci spiegano di aver dovuto rinunciare alla vetta, perché il vento ed i nuvoloni in cielo hanno coperto tutto di nebbia, rendendo impossibile trovare la traccia giusta e, quindi, proseguire senza correre rischi. Peccato.
Anche noi siamo costretti dal tempo instabile a cambiare percorso. Invece che inoltrarci un po’ più in là, in direzione dell’Aguille Du Midi, torneremo indietro verso il Rifugio Torino, per evitare di essere sorpresi dal cattivo tempo.
Uscendo dal rifugio, notiamo che le nuvole stanno concendendo una tregua, e la vista è meravigliosa (ed infatti resterà sul desktop del mio computer MOLTO a lungo!). Dopo un primo tratto di camminata il tempo sembra tenere, e le nostre guide decidono che una deviazione su un percorso nuovo ce la meritiamo comunque: deviamo verso le pendici del Grand Capucin, sotto cui passiamo prima di puntare definitivamente verso il Torino.
Per l’ascesa finale al Col Flambeau ci dividiamo. La cordata di Giovanni sceglie un percorso un po’ più lungo, ma più dolce, mentre quella di Filippo affronta il colle in modo più breve e diretto. Arrivati al Colle, ed ormai in vista del Rifugio Torino, scopriamo di aver calcolato i tempi nel modo giusto: le nuvole sono ormai definitivamente calate, e le cime di fronte a noi sono totalmente invisibili.
Abbiamo tutto il tempo di arrivare al rifugio e scendere in funivia a Courmayeur per un panino e una birra e per salutarci prima del rientro a Milano.
L’ultimo pensiero che mi torna in mente è per le parole di quel signore francese, riguardo alla traversata che sabato ancora ci aspettava. Come aveva detto?

“C’est magique!”

Sì.

martedì 3 luglio 2007

Redorta... la mia montagna "maledetta"

“Le nostre Orobie si stanno disfacendo”.
Con questa frase lapidaria e, di primo achito, un po’ avventata, un rifugista del rif. ‘A. Baroni al Brunone’ in Alta Val Seriana – Bergamo, mi replicò dopo il mio secondo sfortunato tentativo alla vetta del Pizzo Redorta, uno dei tre tremila Orobici, lo scorso 23 agosto 2006.
Il giorno prima, sempre allo stesso rifugio, assistetti ad una scena abbastanza simile, ma con risultati più gravi: un alpinista (lo definisco così, anche solo per il coraggio o sfrontatezza della sua impresa), giungendo zoppicante e sanguinante, con alcune imprecazioni annunciava al pubblico presente il suo insuccesso nella salita in solitaria al più difficile dei ‘tremila’, il Pizzo Scais. Causa della sua sfortunata e fallita ascesa (ma in un certo senso, come immagino tutti quel giorno abbiamo pensato, gli è andata bene) lo stesso inconveniente: rocce marce ed instabili che non offrono sicuro appoggio e/o ti piombano addosso dall’alto.
Ovviamente la difficoltà della sua salita era maggiore della mia: l’essere in solitaria, tratti di 2° e 3° alpinistico… tanti motivi che poi l’abilità e preparazione di ogni alpinista/escursionista valutano differentemente.
Io mi considero un semplice escursionista con la passione per la vetta, ove celebrare, se possibile, la mia voglia di montagna; non ho mai arrampicato (se non in palestra, a scuola) e non mi sento attirato da questa disciplina, pur riconoscendo l’utilità indiscutibile della formazione che essa potrebbe fornirmi per muovermi adeguatamente su roccia.
Non ho neppure mai avuto vergogna nell’ammettere che certe cose, per me, sono troppo rischiose e ho preferito, a volte, fare dietro-front, appunto come le due volte sul Redorta e sul gruppo dei Denti di Terra Rossa nelle Dolomiti di Siusi.
Ma, tornando alla frase iniziale, il problema credo si ponga a chiunque si trovi a che fare con condizioni non facili, e certamente una tale affermazione non può non indurre a riflettere.
Solo 3 anni fa, data a cui risale il mio primo tentativo fallito, camminare sul piccolo ghiacciaio/nevaio del Redorta era già un’impresa più semplice (ghiaccio più compatto e pulito) e la copertura permetteva di raggiungere la Bocchetta di Tua ramponi ai piedi.
Oltre a notare il lento, ma inesorabile, ritirarsi dei ghiacci, l’ultima volta constatai anche che la consistenza del manto cambiava costantemente da neve marcia a ghiaccio vivo, con conseguente maggior pericolo, oltre ad essere costretto a zizzagare tra le rocce scaricate dai vicini fianchi del Redorta e dello Scais.
Una volta raggiunta la zona della bocchetta, solo il salire la prima roccia che consente di guadagnare il valico, generò non pochi problemi a me ed al mio compagno di salita, problemi accentuati dalla brina presente sulla roccia, ancora non scioltasi visto che erano appena le 7.00 del mattino.
Il consiglio ricevuto dal rifugista la sera prima, era quello di affrontare la salita del primo tratto dopo il passo stando costantemente sulla linea di cresta: via ideale per chi possiede esperienza di arrampicata e, forse, l’aiuto di qualche cordino da assicurare ai massi più stabili, non certo per me ed il mio socio, privi di entrambi e restii ad affrontare senza alcuna sicurezza una salita su rocce instabili e con l’occhio sinistro sempre a spiare lo strapiombo sulla valle di Coca: una caduta che non avrebbe quasi sicuramente causato “semplici” ferite ma, inequivocabilmente, la fine delle nostre escursioni in montagna e di tutto il resto.
Eccoci perciò a ritentare quanto sconsigliato dai rifugisti, ma che all’occhio forse inesperto e alla ricerca di qualche appiglio più sicuro, può sembrare “meglio”: il canalino che sale alla destra della linea di cresta. Anche qui, però, come tre anni prima, dovetti desistere; un continuo cedere del terreno, aggravato da rocce che non offrono alcun appiglio e per di più gelate, ci convinsero a rinunciare alla salita, pur con qualche impreco contro una montagna “restia” ad accogliermi in vetta.
Scena comica, ma non troppo, lo zaino che, abbandonato dal mio amico Daniele per facilitarsi la discesa, rotola più volte sul ghiacciaio e si ferma, per fortuna, in un crepaccio poco profondo.
Quello che ci balza subito alla mente è un’idea, che ci viene però subito bocciata sempre dal nostro amico rifugista al rientro: perché non attrezzare quel breve tratto di canalino con una semplice catena, che permetterebbe ai meno esperti come me di raggiungere così il successivo e meno impegnativo tratto di cresta?
Come sempre mi sento dire che una simile soluzione darebbe probabilmente maggior coraggio anche al semplice “camminatore” inesperto, che si troverebbe comunque ancora in difficoltà anche dopo ed inevitabilmente, quasi ogni giorno, sarebbe da andare a recuperare a cura del soccorso alpino. Sono abbastanza d’accordo con questa tesi, ma penso ad esempio ad un’altra cima che ho salito ancora con Daniele nell'estate 2006, il Pizzo di Trona in Val Brembana: anche lì passaggi non proprio semplici, però roccia sana e per di più attrezzata, con l’indicazione per tutti, all’imbocco del sentiero, “tratto per escursionisti esperti”. E’ vero si che, poi, in vetta mi son ritrovato a fianco di una non più giovane signora con ai piedi un paio di scarpe da ginnastica, ma allora una catena è un aiuto o un pericolo? Offrire un’ indiscutibile sicurezza è davvero un così grosso problema?
Io non so dare risposta oggettiva; per me, ovviamente, quella catena in quel canalino avrebbe significato il poter festeggiare due bei giorni passati in alta montagna, con qualche bella foto da vedere poi sullo schermo del mio PC nei tristi giorni di lavoro, invece di tener dentro un sentimento non di molto dissimile all’astio verso una montagna di per sé stupenda.
Altra cosa che non capisco: tracciare il sentiero che sale alla vetta partendo dal rifugio e poi, nel tratto più difficile, questo non c’è più (non un bollo qua e là o qualche semplice cumulo di sassi ad indicare la linea ideale di salita).
Al ritorno a casa, poi, la cosa più odiosa: quel coro degli “eroi”, quei semi-alpinisti o più fortunati escursionisti (magari pure quelli che poi si bloccano in punti più semplici e hanno costante bisogno di aiuto altrui), che son saliti in vetta in condizioni più favorevoli, non manca occasione per dirti che “il Redorta è il più semplice dei tremila”; io in vetta al Pizzo Coca (il “gigante” delle Orobie) ci son stato, e non mi pare di aver affrontato difficoltà maggiori di quelle trovate sulla mia “montagna maledetta”; ciò mi spinge ad avvalorare la tesi che la montagna e le sue difficoltà sono da inserire indubbiamente in quella sfera di argomenti accomunati dalla soggettività. L’unica persona che, prima di effettuare il mio secondo tentativo, mi ha detto la cosa più vera ed oggettiva possibile, è un bravo alpinista del mio paese, che candidamente ha ammesso: “io, il Redorta, è ormai 15 anni che non lo salgo più, ci son stato anche con gli sci d’alpinismo in pieno inverno salendo dal versante valtellinese; ora, a tanti anni di distanza, non ti saprei più dire che montagna è, perché ogni vetta cambia non di anno in anno, ma di ora in ora”.
Quindi penso non esista la via più semplice o un escamotage da adottare, bisogna aver fortuna, allenamento ed un pizzico di intraprendenza e pazienza in più. Mi riprometto, perciò, di ritentare quella vetta la prossima primavera, sperando che davvero, grazie ad un buon innevamento (non come quello di questo inverno 2006/2007... scarsissimo!), quel traguardo tanto ambito diventi, come assicuratomi dagli amici del rifugio Brunone, una semplice e molto remunerante “passeggiata” in quota.

lunedì 2 luglio 2007

Al Rifugio Chiavenna

tra intoppi, pirati, cuccioli e marmotte culone
Domenica 24 giugno 2007

La prima scampagnata estiva parte decisamente a rilento per colpa della chiusura dell’A4 per lavori, che costringe Marco, Dario e me ad un mattiniero incolonnamento in tangenziale, e ci fa arrivare in ritardo di tre quarti d’ora all’appuntamento con Elisa e Paolo. Meno male che i nostri amici la prendono con filosofia, visto che hanno potuto godersi un po’ di relax extra. Una volta al completo, resta da decidere se andare al Resegone oppure al rifugio Chiavenna, il quale vincerà il ballottaggio dopo che ne avrò decantato le virtù pizzoccheresche...

La pausa colazione vede un altro intoppo, visto che la mitica pasticceria di Chiavenna è chiusa per ristrutturazione, e decidiamo di sostituirla con un ristorante-bar un po’ troppo a corto di brioches, mentre Marco va ad informarsi sugli orari delle Messe di tutta la Val Chiavenna, visto come si mette la giornata…

Dopo la striminzita e bollente colazione ci si rimette in strada fino a Fraciscio, dove finalmente possiamo infilare gli scarponi (con Dario che ne sfoggia un paio rosso fiammante nuovo di pacca), sfoderare le fotocamere digitali (con Dario che ne sfoggia una grigia fiammante nuova di pacca), e regolare i bastoncini (con Paolo che ne sfoggia uno “retrattile” non così fiammante, anche se quasi nuovo di pacca, in puro stile Igor di Frankenstein jr.)….

Com’è, come non è, all’alba (?) delle undici meno dieci siamo infine pronti a partire, sotto un sole timido che fa capolino attraverso le nuvole scure che riempiono il cielo.

Il sentiero inizia abbastanza dolcemente alternando tratti in falsopiano a tratti con maggior pendenza, mentre risaliamo il corso del torrente che scorre sulla nostra destra. La valle è molto bella e selvaggia, e dopo pochi minuti di cammino siamo già lontani dalla civiltà. Manco a dirlo, le foto partono a raffica, con Dario tutto preso a testare le funzioni della nuova fotocamera.

Ad un certo punto davanti ai nostri occhi compare una bella ed alta cascata a chiudere la valle, e così il sentiero piega a sinistra, risalendo a forza di tornantini il ripido fianco della montagna. Quando siamo quasi in cima al pendio, in un tratto piano incontriamo un curioso gruppo di bambinetti con una guida alquanto bizzarra, un tizio rasato a zero con bandana e lungo pizzetto a punta, dai modi piuttosto spicci. Ci fa venire in mente Mangiafuoco, oppure un Harleysta… scopriremo in rifugio che invece altri non è che un pirata, anzi, “Il” Pirata (con tanto di maglietta disegnata a teschi), come viene chiamato anche dagli intimoriti bambinetti. Personaggio.

Superata la marmaglia, continuiamo il cammino risalendo il corso del torrente emissario del lago di Angeloga, passando per una bella valletta stretta fra due pareti rocciose, dove il sentiero è allagato da rivoli d’acqua. Ormai siamo in vista della nostra meta, e il paesaggio si allarga una volta arrivati all’Alpe Angeloga, dove il Rifugio e un gruppo di baite compaiono alla nostra vista. E’ l’una meno venti, abbiamo giusto il tempo di rilassarci un poco ed ammirare la bellezza di queste montagne dominate dalla splendida piramide del Pizzo Stella, che è già ora di pranzare, non a base di pizzoccheri, ma di altrettanto buoni gnocchi alla chiavennasca, accompagnati dal classico vino da rifugio (apprezzato anche dal buon Dario, ormai sempre più sulla strada dell’alcolismo cronico) ;-)

Dopo pranzo in quattro decidiamo di proseguire lungo il sentiero verso il Lago Nero e il Passo di Angeloga, a circa un’ora di strada e trecento metri più a monte. Così lasciamo Dario alle sue foto (o forse a smaltire i fumi dell’alcool…), e partiamo di buon passo nonostante la pancia piena e i muscoli intorpiditi. Meno male che ho lasciato lo zaino al rifugio… All’inizio fatichiamo a trovare la traccia, ma dopo poco scorgiamo i bolli rossi e bianchi, ed è per me divertente scrollarmi di dosso in questo modo, su un ripido sentiero in un ambiente selvaggio e solitario, le scorie di troppo tempo passato senza andar per monti. Questo pezzo di sentiero è bello in piedi fino alla fine, quando Marco si ferma davanti ad una pozza d’acqua ad indicarci una massa scura che si confonde fra le rocce grigie. E’ una marmotta, ed è grassa da far schifo, peserà quanto me! Le siamo davvero vicini, e riesco a scattarle qualche foto, prima che voltandoci le spalle metta in mostra il suo enorme culone e si rintani fra le rocce (e meno male che non ha imitato lo scoiattolo della pubblicità!!!) ;-)))

Dopo il gradito incontro Marco, Ely e Paolo si portano su uno sperone di roccia ad ammirare il Lago Nero qualche decina di metri più in basso, mentre io, ormai preso dalla scimmia dell’esploratore proseguo balzellon balzelloni lungo il sentiero, pensando di essere seguito dagli altri. Mi accorgo di essere rimasto da solo soltanto quando li scorgo ancora sullo sperone a sbracciarsi per farmi capire che vogliono tornare indietro, perché comincia a farsi tardi, e Marco rischia di perdere la Messa. In effetti sono già le tre e mezza, ed è meglio tornare sui nostri passi, cosa che faremo abbastanza di corsa. Di nuovo al rifugio, Ely trova un cagnolino giocherellone, che ci fa perdere altro tempo, ma come si fa… è troppo buffo, salta, si agita e azzanna i laccioli dei nostri bastoncini, e lo porteremmo volentieri con noi… ma dopo un po’ lo lasciamo, perché Marco scalpita, e c’incamminiamo verso la macchina. In effetti il ritorno si risolve in una lunga corsa in discesa, con Marco che, essendo in missione per conto di Dio, si scapicolla giù per il sentiero, e noi altri che più che seguirlo lo rincorriamo... Ma tutto è bene quel che finisce bene, e la giornata finisce per lui in chiesa, per noialtri in un ottimo bar-pizzeria (gentilmente ribattezzato dal Paolo “l’ignobile …”) a mangiare e bere, prima di risalire in auto per il lungo viaggio di ritorno.



P.S.: si ricorda che l’escursione di oggi si è potuta svolgere grazie alla lungimiranza, l’operosità e la graziosa benevolenza dell’Esimio Presidente Generale del CAI, egr. Dott. Ing. Cav. Gr. Lup. Mann. Prof. Annibale Salsa.

(si raccomanda a questo punto ad ogni socio CAI un inchino colmo di deferenza e gratitudine all’indirizzo del Magnanimo Altissimo e Purissimo Dirigente)