martedì 3 luglio 2007

Redorta... la mia montagna "maledetta"

“Le nostre Orobie si stanno disfacendo”.
Con questa frase lapidaria e, di primo achito, un po’ avventata, un rifugista del rif. ‘A. Baroni al Brunone’ in Alta Val Seriana – Bergamo, mi replicò dopo il mio secondo sfortunato tentativo alla vetta del Pizzo Redorta, uno dei tre tremila Orobici, lo scorso 23 agosto 2006.
Il giorno prima, sempre allo stesso rifugio, assistetti ad una scena abbastanza simile, ma con risultati più gravi: un alpinista (lo definisco così, anche solo per il coraggio o sfrontatezza della sua impresa), giungendo zoppicante e sanguinante, con alcune imprecazioni annunciava al pubblico presente il suo insuccesso nella salita in solitaria al più difficile dei ‘tremila’, il Pizzo Scais. Causa della sua sfortunata e fallita ascesa (ma in un certo senso, come immagino tutti quel giorno abbiamo pensato, gli è andata bene) lo stesso inconveniente: rocce marce ed instabili che non offrono sicuro appoggio e/o ti piombano addosso dall’alto.
Ovviamente la difficoltà della sua salita era maggiore della mia: l’essere in solitaria, tratti di 2° e 3° alpinistico… tanti motivi che poi l’abilità e preparazione di ogni alpinista/escursionista valutano differentemente.
Io mi considero un semplice escursionista con la passione per la vetta, ove celebrare, se possibile, la mia voglia di montagna; non ho mai arrampicato (se non in palestra, a scuola) e non mi sento attirato da questa disciplina, pur riconoscendo l’utilità indiscutibile della formazione che essa potrebbe fornirmi per muovermi adeguatamente su roccia.
Non ho neppure mai avuto vergogna nell’ammettere che certe cose, per me, sono troppo rischiose e ho preferito, a volte, fare dietro-front, appunto come le due volte sul Redorta e sul gruppo dei Denti di Terra Rossa nelle Dolomiti di Siusi.
Ma, tornando alla frase iniziale, il problema credo si ponga a chiunque si trovi a che fare con condizioni non facili, e certamente una tale affermazione non può non indurre a riflettere.
Solo 3 anni fa, data a cui risale il mio primo tentativo fallito, camminare sul piccolo ghiacciaio/nevaio del Redorta era già un’impresa più semplice (ghiaccio più compatto e pulito) e la copertura permetteva di raggiungere la Bocchetta di Tua ramponi ai piedi.
Oltre a notare il lento, ma inesorabile, ritirarsi dei ghiacci, l’ultima volta constatai anche che la consistenza del manto cambiava costantemente da neve marcia a ghiaccio vivo, con conseguente maggior pericolo, oltre ad essere costretto a zizzagare tra le rocce scaricate dai vicini fianchi del Redorta e dello Scais.
Una volta raggiunta la zona della bocchetta, solo il salire la prima roccia che consente di guadagnare il valico, generò non pochi problemi a me ed al mio compagno di salita, problemi accentuati dalla brina presente sulla roccia, ancora non scioltasi visto che erano appena le 7.00 del mattino.
Il consiglio ricevuto dal rifugista la sera prima, era quello di affrontare la salita del primo tratto dopo il passo stando costantemente sulla linea di cresta: via ideale per chi possiede esperienza di arrampicata e, forse, l’aiuto di qualche cordino da assicurare ai massi più stabili, non certo per me ed il mio socio, privi di entrambi e restii ad affrontare senza alcuna sicurezza una salita su rocce instabili e con l’occhio sinistro sempre a spiare lo strapiombo sulla valle di Coca: una caduta che non avrebbe quasi sicuramente causato “semplici” ferite ma, inequivocabilmente, la fine delle nostre escursioni in montagna e di tutto il resto.
Eccoci perciò a ritentare quanto sconsigliato dai rifugisti, ma che all’occhio forse inesperto e alla ricerca di qualche appiglio più sicuro, può sembrare “meglio”: il canalino che sale alla destra della linea di cresta. Anche qui, però, come tre anni prima, dovetti desistere; un continuo cedere del terreno, aggravato da rocce che non offrono alcun appiglio e per di più gelate, ci convinsero a rinunciare alla salita, pur con qualche impreco contro una montagna “restia” ad accogliermi in vetta.
Scena comica, ma non troppo, lo zaino che, abbandonato dal mio amico Daniele per facilitarsi la discesa, rotola più volte sul ghiacciaio e si ferma, per fortuna, in un crepaccio poco profondo.
Quello che ci balza subito alla mente è un’idea, che ci viene però subito bocciata sempre dal nostro amico rifugista al rientro: perché non attrezzare quel breve tratto di canalino con una semplice catena, che permetterebbe ai meno esperti come me di raggiungere così il successivo e meno impegnativo tratto di cresta?
Come sempre mi sento dire che una simile soluzione darebbe probabilmente maggior coraggio anche al semplice “camminatore” inesperto, che si troverebbe comunque ancora in difficoltà anche dopo ed inevitabilmente, quasi ogni giorno, sarebbe da andare a recuperare a cura del soccorso alpino. Sono abbastanza d’accordo con questa tesi, ma penso ad esempio ad un’altra cima che ho salito ancora con Daniele nell'estate 2006, il Pizzo di Trona in Val Brembana: anche lì passaggi non proprio semplici, però roccia sana e per di più attrezzata, con l’indicazione per tutti, all’imbocco del sentiero, “tratto per escursionisti esperti”. E’ vero si che, poi, in vetta mi son ritrovato a fianco di una non più giovane signora con ai piedi un paio di scarpe da ginnastica, ma allora una catena è un aiuto o un pericolo? Offrire un’ indiscutibile sicurezza è davvero un così grosso problema?
Io non so dare risposta oggettiva; per me, ovviamente, quella catena in quel canalino avrebbe significato il poter festeggiare due bei giorni passati in alta montagna, con qualche bella foto da vedere poi sullo schermo del mio PC nei tristi giorni di lavoro, invece di tener dentro un sentimento non di molto dissimile all’astio verso una montagna di per sé stupenda.
Altra cosa che non capisco: tracciare il sentiero che sale alla vetta partendo dal rifugio e poi, nel tratto più difficile, questo non c’è più (non un bollo qua e là o qualche semplice cumulo di sassi ad indicare la linea ideale di salita).
Al ritorno a casa, poi, la cosa più odiosa: quel coro degli “eroi”, quei semi-alpinisti o più fortunati escursionisti (magari pure quelli che poi si bloccano in punti più semplici e hanno costante bisogno di aiuto altrui), che son saliti in vetta in condizioni più favorevoli, non manca occasione per dirti che “il Redorta è il più semplice dei tremila”; io in vetta al Pizzo Coca (il “gigante” delle Orobie) ci son stato, e non mi pare di aver affrontato difficoltà maggiori di quelle trovate sulla mia “montagna maledetta”; ciò mi spinge ad avvalorare la tesi che la montagna e le sue difficoltà sono da inserire indubbiamente in quella sfera di argomenti accomunati dalla soggettività. L’unica persona che, prima di effettuare il mio secondo tentativo, mi ha detto la cosa più vera ed oggettiva possibile, è un bravo alpinista del mio paese, che candidamente ha ammesso: “io, il Redorta, è ormai 15 anni che non lo salgo più, ci son stato anche con gli sci d’alpinismo in pieno inverno salendo dal versante valtellinese; ora, a tanti anni di distanza, non ti saprei più dire che montagna è, perché ogni vetta cambia non di anno in anno, ma di ora in ora”.
Quindi penso non esista la via più semplice o un escamotage da adottare, bisogna aver fortuna, allenamento ed un pizzico di intraprendenza e pazienza in più. Mi riprometto, perciò, di ritentare quella vetta la prossima primavera, sperando che davvero, grazie ad un buon innevamento (non come quello di questo inverno 2006/2007... scarsissimo!), quel traguardo tanto ambito diventi, come assicuratomi dagli amici del rifugio Brunone, una semplice e molto remunerante “passeggiata” in quota.

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