sabato 28 luglio 2007

I fantasmi di pietra

di Mauro Corona

“Percorro d’inverno con le mani in tasca le antiche vie di ciottoli, tra le case di sasso bianco rimaste in piedi dopo oltre quarant’anni di abbandono. Sulle altre, quelle ormai finite in terra, passo scavalcando macerie. Travi di larice rosso sangue ancora sani dopo quattrocento anni, squadrati a colpi d’ascia, occhieggiano semisepolti dalle pietre scalpellate provenienti dal monte Borgà. Su tutto trionfano l’ortica secca e sambuchi scheletriti. La foresta torna a riprendersi il territorio, ricresce là, dove l’uomo l’aveva estirpata per fare case e orti. Anche d’inverno le ortiche resistono, pungono. Selve di steli disseccati emergono dai sassi. Rigidi, sottili, cattivi, non cedono nemmeno al vento, vivono tra i fantasmi di pietra, tengono compagnia alle case abbandonate. C’è ancora qualche vecchio, pochi, rari come i cuculi a marzo. Hanno sguardi malinconici, la tristezza trapela, non c’è verso di scacciarla, chiudono occhi acquosi che non sorridono più. E’ strano, ho l’impressione di sentire ancora voci di bambini. Girano tra le case abbandonate, attorno alle macerie di quelle crollate, sul sagrato della chiesa, che resiste nonostante sia stata spogliata di tutto. Emana quell’aria di mistero, di santità, di presenza divina che hanno le vecchie chiese e che nessun tempo o mano umana riusciranno a soffocare. Che ne sarà in futuro del vecchio paese? La desolazione circola tra le case, salta dentro finestre vuote, perlustra i sottoscala, percorre cortili, s’arrampica sui meli, spia, accarezza. Si leva il vento dell’inverno. Come un tempo. Qualche porta sbatte. Molte case non ci sono più, ma il vento è sempre lo stesso. La pietra messa a pavimento resiste al passare degli anni, quelle dei muri poste una sull’altra se non sono accudite, amate, riscaldate, cadono. “Un peso deve cadere altrimenti non è un peso” scrisse Carlo Michelstaedter prima di spararsi. Era la sera del 17 ottobre 1910. Gli erano cadute addosso le pietre della vita. Senza amore non si resiste al vagito del tempo, che è sempre giovane, sempre passato. Non si regge al suo sbadiglio contagioso che ci porta il grande sonno. Il mio caro, vecchio paese si lascia morire per mancanza d’affetto, si sta suicidando per abbandono. Partire per un viaggio in pieno inverno a mani in tasca non è facile. Eppure è un viaggio di nemmeno un chilometro.”
da “I fantasmi di pietra”, di Mauro Corona, Mondadori editore

9 ottobre 1963, ore 22:39. Duecentosettanta milioni di metri cubi di rocce e terra si staccano dal fianco del monte Toc e precipitano nel lago artificiale del Vajont. Le due ondate provocate dalla frana uccidono più di duemila persone a Longarone e nei paesi limitrofi, e piantano un colpo di mannaia nel futuro dei superstiti.
Mauro Corona aveva tredici anni a quel tempo, e l’onda risparmiò per pochi metri il suo paese, Erto, ma non le sue frazioni più basse. Quel giorno, quell’evento si staglia con la sua terribile ingombrante presenza sullo sfondo del suo ultimo commovente libro.
Un viaggio, un pellegrinaggio lungo le desolate vie del paese vecchio ed abbandonato, lungo quattro vie, e quattro stagioni. Ed il racconto di ciò che era, da sempre, e non tornerà: personaggi, sbronze, racconti, leggende, odori, animali, colori, sapori, antiche conoscenze e abilità perdute, che lungo i ciottoli silenziosi senza più vita tornano per un breve momento ad affacciarsi al mondo attraverso la dolcissima malinconia del ricordo.

Come sempre, quando finisco un libro di Mauro, un groppo mi morde la gola. Sarà che sono troppo sensibile io, o forse sarà la capacità rara che possiede lui di toccare qualche corda profonda dentro l’anima, e di farti vivere ogni sensazione ed emozione della sua esperienza, sarà la sua schietta e burbera sincerità, verso gli altri e soprattutto se stesso, a rendere i suoi racconti così speciali, almeno per me… penso che sia proprio così, e chi avrà voglia di leggere un suo libro, penso proprio che si troverà d’accordo con me.

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